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Il ruolo dei semiconduttori nell’intelligenza artificiale

Perché “il nuovo petrolio” dell’AI è fatto di silicio, memoria e interconnessioni

Parlare di intelligenza artificiale senza citare i semiconduttori sarebbe come raccontare la storia dell’aviazione dimenticandosi dei motori: semplicemente impossibile. Dietro ogni chatbot, modello generativo o algoritmo di visione artificiale ci sono miliardi di calcoli al secondo che devono essere eseguiti, immagazzinati e distribuiti. È qui che entrano in gioco i chip: l’infrastruttura fisica dell’AI, la base su cui si regge tutto l’edificio tecnologico.


Sono i semiconduttori a permettere l’addestramento dei modelli, con enormi quantità di dati processati in parallelo; sono sempre loro a consentire l’esecuzione delle reti neurali in tempo reale, sia nel cloud che nei dispositivi edge; e, ancora, è grazie ai chip che l’AI può essere distribuita su larga scala, passando dal laboratorio alla vita quotidiana.


Ma non basta sapere che “servono chip”: occorre capire quali tipi di semiconduttori vengono utilizzati, come vengono collegati tra loro nei datacenter e dove vengono prodotti lungo una filiera globale che è complessa e fragile al tempo stesso. Per un investitore o un professionista del settore, conoscere questi elementi è cruciale per leggere correttamente i costi di sviluppo, i colli di bottiglia produttivi e le opportunità di crescita. In fondo, l’AI non vive solo di algoritmi: vive di silicio, memoria e interconnessioni..



AI = calcolo parallelo + memoria vicina

L’intelligenza artificiale moderna non è magia, ma matematica pura: dietro le quinte, i modelli che oggi ci sorprendono con testi, immagini e previsioni lavorano essenzialmente su moltiplicazioni di matrici enormi. Ogni neurone artificiale, ogni layer di una rete neurale, si riduce a operazioni di questo tipo ripetute miliardi di volte.


Per gestire questo carico, due risorse diventano decisive:


🔹 Calcolo paralleloNon basta avere un processore potente: serve la capacità di eseguire milioni di calcoli in contemporanea. Ecco perché le GPU e gli acceleratori dedicati hanno soppiantato le CPU tradizionali nell’AI: al posto di pochi core molto complessi, contano su migliaia di unità di calcolo più semplici, che insieme possono moltiplicare e accumulare numeri a una velocità impressionante. È come passare da un artigiano solitario a un esercito di operai specializzati che lavorano in parallelo su parti diverse dello stesso compito.


🔹 Banda memoriaIl secondo ingrediente fondamentale è la capacità di spostare dati verso i core abbastanza velocemente. Perché anche il processore più potente diventa inutile se resta “a secco” di dati da elaborare. Qui entra in gioco la banda della memoria, cioè la velocità con cui le informazioni possono essere trasferite. Tecnologie come la HBM (High Bandwidth Memory) sono nate proprio per alimentare questi acceleratori con la quantità di dati necessaria.


🔹 Non vince il chip più veloce, ma il sistema miglioreUn errore comune è pensare che la partita si giochi sul “chip più veloce”. In realtà, a contare è l’ecosistema nel suo complesso: la combinazione tra potenza di calcolo, ampiezza di banda memoria e qualità della rete che collega decine, centinaia o migliaia di acceleratori insieme. È per questo che oggi le metriche cruciali non sono solo i teraflop di calcolo puro, ma parametri come il performance-per-watt (quanto lavoro si ottiene per ogni unità di energia consumata) o il costo-per-token (quanto costa generare un output di AI, ad esempio una parola o un’immagine).


In un mondo in cui i modelli diventano sempre più grandi e complessi, il vero vincitore non è chi ha il processore più potente sulla carta, ma chi riesce a costruire sistemi bilanciati ed efficienti in cui calcolo, memoria e interconnessioni lavorano in armonia.


Le “famiglie” di chip nell’AI

Il mondo dei semiconduttori per l’intelligenza artificiale è estremamente vario: non esiste un solo tipo di chip, ma diverse categorie che si sono ritagliate ruoli precisi in base alle esigenze di calcolo, consumo energetico e flessibilità.


🔹 CPU (Central Processing Unit)Le CPU sono i “generali” del sistema. Nascono come processori universali, in grado di gestire una grande varietà di compiti: dal sistema operativo all’organizzazione del flusso di dati, fino al coordinamento delle altre unità di calcolo. Sono flessibili e versatili, ma non brillano nel calcolo massivo di tensori – l’operazione fondamentale dietro le reti neurali. Se paragoniamo un datacenter a un cantiere, le CPU sono i capisquadra: indispensabili per dare le istruzioni, ma non quelle che sollevano i carichi più pesanti.


🔹 GPU (Graphics Processing Unit)Le GPU sono le vere protagoniste dell’AI. Progettate inizialmente per elaborare grafica 3D e rendering, hanno un’architettura perfetta per il calcolo parallelo: centinaia o migliaia di core più semplici che lavorano contemporaneamente. Questo le rende ideali per le operazioni vettoriali e matriciali tipiche del machine learning. Oggi le GPU, grazie a colossi come Nvidia e AMD, sono lo standard de facto per il training dei modelli di deep learning. Sono le “ruspe” del cantiere: potenti, instancabili e in grado di muovere enormi quantità di materiale contemporaneamente.


🔹 TPU, NPU e ASIC dedicatiAccanto alle GPU, si sono sviluppati chip ancora più specializzati: le TPU (Tensor Processing Unit) create da Google, le NPU (Neural Processing Unit) presenti in molti smartphone moderni e altri ASIC (Application-Specific Integrated Circuit) dedicati alle reti neurali. Questi chip non hanno la flessibilità delle GPU, ma sono molto più efficienti per compiti specifici, in particolare l’inference (cioè quando un modello già addestrato viene utilizzato per fare previsioni o generare output). Sono le “macchine su misura” del cantiere: magari fanno solo un lavoro, ma lo fanno a velocità e costi imbattibili.


🔹 DSP e MCU per l’edgeNon tutta l’intelligenza artificiale vive nei datacenter. Sempre più spesso si parla di edge AI, cioè l’AI eseguita direttamente sui dispositivi finali: smartphone, elettrodomestici, sensori IoT, auto connesse. Qui entrano in gioco i DSP (Digital Signal Processor) e le MCU (Microcontroller Unit), chip piccoli, economici e a bassissimo consumo. Non hanno la potenza per addestrare un modello complesso, ma sono perfetti per far girare reti neurali compatte in tempo reale, riducendo latenza e consumo energetico.


Training vs Inference: esigenze diverse

  • L’AI non è un blocco unico: ha due fasi distinte, con esigenze molto diverse.


    • Training (addestramento): è la fase più pesante, quella in cui il modello “impara” macinando enormi quantità di dati. Qui dominano GPU e TPU, grazie alla loro banda memoria enorme e alla capacità di gestire calcoli numerici a precisioni ibride (come FP16 o FP8 per velocità, con accumulazioni in FP32 per precisione). Senza acceleratori di questo tipo, addestrare modelli come GPT o Stable Diffusion richiederebbe anni invece di settimane.


    • Inference (utilizzo del modello): una volta addestrato, il modello deve essere usato rapidamente ed economicamente. Qui la priorità non è più la massima potenza, ma il giusto compromesso tra costo, latenza e consumo energetico. Ecco perché per l’inference si utilizzano spesso chip dedicati (ASIC o NPU nei telefoni) con tecniche di ottimizzazione come la quantizzazione (INT8 o FP8), che riduce la complessità numerica per guadagnare efficienza senza compromettere troppo la qualità dei risultati.


Memoria: il vero collo di bottiglia

Se c’è una cosa che caratterizza i modelli di intelligenza artificiale moderni, è la loro voracità di memoria. Non basta avere un chip potente: senza memoria veloce e abbondante, l’acceleratore resta come un motore da corsa con il serbatoio vuoto. La capacità di alimentare i core con i dati giusti, al momento giusto, è spesso il vero collo di bottiglia che distingue un sistema mediocre da uno all’avanguardia.


Ecco perché il progresso nell’AI non dipende solo dal calcolo, ma anche dalle innovazioni nella tecnologia della memoria e nelle tecniche di ottimizzazione dei modelli.


🔹 HBM (High Bandwidth Memory)La HBM è la regina incontrastata della memoria per AI. A differenza della tradizionale GDDR (usata nelle schede grafiche consumer), la HBM è impilata verticalmente e collegata direttamente al chip tramite interposer, così da garantire una larghezza di banda enorme con consumi molto più contenuti.

Questo significa che i core della GPU o dell’ASIC possono ricevere dati senza restare in attesa, lavorando al massimo delle loro capacità. È la differenza tra avere un’autostrada a otto corsie libera e una strada provinciale intasata: il flusso scorre senza interruzioni. Non a caso, la disponibilità di HBM è oggi uno dei principali colli di bottiglia per la produzione di acceleratori AI di ultima generazione.


🔹 Cache e gerarchie di memoriaOltre alla memoria principale, conta anche come questa viene organizzata. I moderni chip AI usano gerarchie complesse di cache per ridurre al minimo gli accessi “lenti” alla memoria esterna. Ogni volta che un core deve fermarsi ad aspettare i dati, l’efficienza cala.

Avere cache di livello L1, L2 e L3 ben bilanciate significa poter tenere vicini i dati più usati, riducendo i tempi di attesa. È come avere una dispensa accanto alla cucina invece di dover correre ogni volta al supermercato: più veloce, più efficiente, meno energia sprecata.


🔹 Quantizzazione e pruningNon tutta la sfida è hardware: anche il software fa la sua parte. Tecniche come la quantizzazione e il pruning servono a “snellire” i modelli, riducendo il peso della memoria richiesta senza perdere troppa accuratezza.


  • Quantizzazione: invece di rappresentare i numeri con 32 bit (FP32), li si approssima a 16, 8 o persino 4 bit. Questo riduce lo spazio necessario e accelera i calcoli, abbassando costi e latenz


  • Pruning: consiste nell’eliminare connessioni o neuroni poco rilevanti in una rete neurale, rendendola più leggera e veloce.


In pratica, si tratta di mettere il modello “a dieta”: meno memoria occupata, meno energia consumata, più velocità.


Scalare oltre il singolo chip: il “datacenter come computer”

Quando si parla di intelligenza artificiale, immaginare che un singolo acceleratore possa bastare è un errore comune. I modelli moderni – che contano centinaia di miliardi di parametri – sono semplicemente troppo grandi per stare dentro a un solo chip, per quanto potente. È un po’ come voler far passare l’acqua di un’intera diga dentro un tubo domestico: servono strutture su scala completamente diversa.


Per addestrare e utilizzare queste reti serve mettere insieme cluster di acceleratori, cioè centinaia o migliaia di chip che lavorano in parallelo come se fossero un unico supercomputer. Ma perché questo funzioni davvero, entrano in gioco tre elementi fondamentali: le interconnessioni, la topologia e lo stack software.


🔹 Interconnessioni ad alta velocitàIl cuore di un cluster è la sua capacità di comunicare. Non basta avere tanti chip, bisogna che i dati fluiscano tra di loro con latenza bassissima e banda enorme. Qui entrano in gioco tecnologie come NVLink, InfiniBand o le Ethernet ultra-veloci da 100 a 400 Gbps. La qualità della rete interna determina se i chip possono davvero “parlarsi” in tempo reale o se restano a metà potenza, bloccati in attesa dei dati.


🔹 Topologia consapevoleNon tutte le reti sono uguali. La disposizione e la connessione dei chip (le cosiddette topologie di rete, come fat-tree o dragonfly) devono essere pensate in funzione del tipo di parallelismo usato:


  • Data parallelism, dove i dati sono divisi tra più nodi.

  • Model parallelism, dove il modello stesso viene spezzettato.

  • Pipeline parallelism, dove le fasi dell’addestramento sono distribuite su chip diversi.


Ogni approccio ha esigenze diverse, e una topologia non adatta può tradursi in colli di bottiglia enormi. È come organizzare una catena di montaggio: se la disposizione delle postazioni è inefficiente, il tempo perso supera il guadagno.


🔹 Software stack: il cervello invisibileInfine, anche il miglior hardware resta inutile senza un software maturo che lo governi. È il caso di piattaforme come CUDA (Nvidia) o ROCm (AMD), compilatori grafi come XLA e Triton, librerie come cuDNN e NCCL, fino agli scheduler che ripartiscono i compiti tra i vari nodi.


Lo stack software è ciò che permette di tradurre il codice scritto dagli sviluppatori in operazioni ottimizzate che sfruttano davvero le GPU e gli acceleratori. Senza di esso, avere un cluster sarebbe come avere un’orchestra di strumenti perfetti senza un direttore che coordina i musicisti: il risultato sarebbe solo rumore.o”.


Trade-off strategici: non esiste “il chip migliore”, ma l’architettura giusta

Quando si parla di AI bisogna distinguere due fasi fondamentali: training (addestramento del modello) e inference (utilizzo del modello per generare output). Sono due momenti molto diversi e con esigenze tecniche quasi opposte.


🔹 Training: la maratona del calcoloIl training è il momento più dispendioso: è qui che un modello impara, macinando enormi volumi di dati e aggiornando miliardi di parametri. L’obiettivo è massimizzare throughput e scalabilità. Per riuscirci servono reti di acceleratori interconnessi e memorie ad altissima banda (come la HBM) che evitino colli di bottiglia. È un processo che può durare settimane e costare milioni di dollari in risorse. In questo scenario, vince chi riesce a costruire cluster più grandi e più efficienti, capaci di “allenare” modelli sempre più complessi.


🔹 Inference: il consumo quotidianoSe il training è una maratona, l’inference è il servizio quotidiano: rispondere a una query, generare un’immagine, tradurre un testo. Qui i vincoli sono diversi: costo per token, latenza e consumo energetico. Per ogni risposta generata, conta quanto costa in termini di elettricità e hardware, e quanto velocemente arriva il risultato. Non a caso, la metrica chiave diventa “watt per token”: ridurre il consumo energetico per ogni output è ciò che determina la sostenibilità di un modello a larga scala.


  • Cloud vs Edge: centralizzazione o periferia?


    Un altro punto chiave riguarda dove far girare i modelli.


    • Cloud: qui si concentrano le risorse massicce. Addestrare e servire modelli giganteschi ha senso solo in data center con cluster scalabili e ben orchestrati. È il luogo ideale per centralizzare la potenza e distribuire servizi a milioni di utenti.


    • Edge: non tutto può vivere nel cloud. Per applicazioni che richiedono bassa latenza (come guida autonoma, realtà aumentata o riconoscimento vocale offline) o maggiore privacy, conviene spostare l’AI vicino al dispositivo. Smartphone con NPU dedicate, auto con SoC ottimizzati, sensori IoT con microchip intelligenti sono esempi concreti.


    Il futuro sarà ibrido: i grandi modelli nel cloud e versioni compresse ottimizzate per l’edge.


    Generico vs Dedicato: la sfida tra flessibilità ed efficienza


    Non tutti i chip sono uguali: alcuni puntano sulla flessibilità, altri sulla massima efficienza.


    • ASIC (Application-Specific Integrated Circuit): sono chip progettati per un compito preciso, come accelerare una rete neurale. In questi casi sono imbattibili in efficienza: meno consumi, più performance per il lavoro target. Il rovescio della medaglia è la rigidità: se il modello cambia o l’ecosistema evolve, l’ASIC rischia di diventare obsoleto.


    • GPU (Graphics Processing Unit): al contrario, le GPU non sono perfette in termini di efficienza energetica, ma vincono in flessibilità. Possono adattarsi a modelli e framework nuovi, sostenere applicazioni diverse e sfruttare un ecosistema software (CUDA, librerie, compilatori) che evolve con rapidità.


    In un settore come l’AI, che si muove velocissimo, la flessibilità spesso batte l’efficienza, almeno nel breve periodo. Tuttavia, quando una tecnologia si stabilizza (ad esempio l’inference di modelli consolidati), i chip dedicati tornano a guadagnare terreno.


Perché tutto questo conta per la finanza

I semiconduttori determinano costi marginali dell’AI, barriere all’ingresso, elasticità della domanda (se scende il costo per inferenza, crescono i casi d’uso) e ritmi d’adozione. Dietro ogni rally AI ci sono: disponibilità HBM, capacità di packaging, maturità software e accesso a nodi avanzati. L’AI non è solo “modelli”: è una catena industriale in cui ogni anello crea o distrugge valore.


Conclusione

L’AI corre alla velocità del suo silicio. Chi domina calcolo, memoria e rete — insieme allo stack software — guida l’economia dell’intelligenza artificiale. Per investitori e builder, la bussola è semplice: seguire performance-per-watt, costo-per-token, scalabilità dei cluster e resilienza della supply chain. Lì si gioca la partita.

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